Piero Anfossi
Tra le polveri fini in sospensione nell’aria, oltre a quelle che rientrano nella categoria indicata come PM10 (lo standard PM, Particulate Matter, è stato introdotto dall’americana EPA, Environmental Protection Agency), si sentono frequentemente nominare le PM2,5, costituite da particelle con un diametro inferiore a 2,5 micron. Queste polveri si potrebbero definire finissime, in quanto di dimensioni inferiori rispetto al “più grossolano” PM10 che raggruppa elementi compresi tra i 2,5 e i 10 micron di diametro. Una terza categoria è quella delle polveri ultra fini, comprese tra 1 e 0,1 micron. Si tenga conto che un micron equivale ad un millesimo di millimetro. In realtà la suddivisione in categorie dello standard PM non fa riferimento alle dimensioni del particolato, bensì alla sua capacità di penetrare più o meno profondamente nelle vie respiratorie. Le particelle inferiori al micron sono completamente inalate, mentre per dimensioni superiori può variare la percentuale di penetrazione.
Il particolato è sia di origine naturale come i pollini, le spore e la polvere vulcanica, sia antropica, come le ceneri generate dai processi di combustione. Come è noto tra le maggiori fonti di origine antropica figurano le emissioni degli autoveicoli, insieme a quelle degli impianti di riscaldamento e delle lavorazioni industriali. Nella loro composizione, oltre agli idrocarburi, possono entrare numerosi altri elementi tra cui solfati, nitrati, metalli pesanti e diossine. La tendenza alla concentrazione di tali particelle è maggiore in presenza di precipitazioni scarse e assenza di vento, quando si genera un ristagno dell’aria in prossimità del suolo. Recenti studi hanno individuato come il bacino padano sia tra le aree con le maggiori concentrazioni di particolato in sospensione nell’aria. In particolare Lombardia ed Emilia-Romagna sono le regioni che registrano i più alti livelli di particolato. Ai numerosi insediamenti industriali prossimi ad aree metropolitane densamente abitate, si aggiunga la conformazione della Pianura padana, bloccata su tre lati da catene montuose, che non facilita la dispersione degli inquinanti atmosferici come in altre zone del paese. A Genova ad esempio, un regime dei venti quasi sempre costante contribuisce non poco alla dispersione del particolato, in una città dove altrimenti la situazione risulterebbe ben peggiore.
Se per la Lombardia è facile immaginare le cause di un’alta concentrazione di particolato, per quanto riguarda l’Emilia-Romagna il discorso risulta meno evidente, se non si tiene conto di alcuni dati. Secondo uno studio del 2018 di Arpa (Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) in collaborazione con Ispra, l’Istituto superiore per l’ambiente, le emissioni da riscaldamento insieme a quelle degli allevamenti sono responsabili del 50% del PM2,5, a cui fanno seguito le emissioni da circolazione veicolare (14%) e quelle industriali (10%). Dal 1990 al 2018, periodo preso in esame dallo studio, la percentuale di PM2,5 da allevamenti è aumentata dal 7% al 17%. Le innumerevoli attività zootecniche presenti nella bassa padana tra Lombardia ed Emilia, sono probabilmente una concausa della concentrazione di particolato anche in un’area a vocazione prettamente agricola. Secondo Arpa Lombardia l’ammoniaca (NH3) emessa dagli allevamenti, concorre per un terzo del particolato sul territorio regionale, mentre l’Arpae Emilia-Romagna pone l’allevamento intensivo al secondo posto per emissioni di PM10 in regione. Quanto più abbondanti sono i liquami reflui emessi dagli impianti zootecnici, tanto più elevate saranno le emissioni di ammoniaca e, di conseguenza, il livello di particolato nell’aria. Parte dell’azoto e dell’urea contenuti nei liquami si trasformano in ammonio disperso nell’atmosfera sotto forma di ammoniaca. Secondo processi chimico-fisici si formano associazioni molecolari della più svariata origine, in cui non di rado entrano in gioco l’ossido di azoto (NO), il biossido di zolfo (SO2) e l’ammoniaca (NH3), a formare un particolato detto secondario, in quanto non direttamente emesso dalla fonte inquinante. L’ammoniaca, reagendo con altre sostanze in sospensione nell’aria, può formare sali inorganici: ad esempio con l’acido nitrico dà origine a nitrato di ammonio, mentre con l’acido solforico forma solfato di ammonio, entrambi presenti nel particolato. In tempi di coronavirus, gli ambienti vengono sanificati nebulizzando sulle superfici prodotti a base di sali di ammonio: ovviamente durante la disinfezione tali prodotti non devono essere inalati. I sali quaternari di ammonio sono adoperati anche per la disinfezione delle serre, ma l’ammoniaca entra soprattutto come componente essenziale nei fertilizzanti utilizzati in agricoltura. La dispersione nell’ambiente di questa sostanza, oltre ad incrementare la percentuale del particolato, contribuisce a contaminare le falde acquifere. Una riduzione delle emissioni di ammoniaca è possibile, adottando opportune misure per il trattamento delle deiezioni negli impianti zootecnici. Oltre a destinare il letame quale fertilizzante naturale in campo agricolo (sarebbe bene mescolarlo al terreno e non irrorarlo in forma liquida sui campi prima delle semine), si può anche utilizzare per la produzione di biogas.
Riepilogando: le polveri fini diffuse nell’aria contengono numerose sostanze nocive per l’apparato respiratorio. Tra le categorie di particolato, il PM2,5 è quello più pericoloso per la salute umana, in quanto di dimensioni tali da rimanere in sospensione nell’aria e venire facilmente inalato fino a raggiungere gli alveoli polmonari, dove, col tempo, può provocare danni irreversibili all’apparato respiratorio. Numerosi studi epidemiologici hanno dimostrato il legame tra concentrazione di inquinanti ed infezioni respiratorie acute che, se non curate, possono diventare croniche. In uno di questi studi a cura di numerosi epidemiologi di varie università, agenzie sanitarie pubbliche e tecnici delle Arpa regionali, tra il 1996 e il 2002 il numero di ricoveri e il tasso di mortalità sono stati messi in relazione con i dati rilevati dalle centraline di monitoraggio delle quindici maggiori città italiane. Si è notato che a un innalzamento dei livelli corrisponde, nei 10 giorni seguenti, un aumento di ricoveri e decessi per un numero complessivo di duemila morti l’anno. Tenendo conto che i centri considerati rappresentano meno di un quinto della popolazione italiana, in un anno il numero dei morti sull’intero territorio nazionale potrebbe raggiungere i diecimila. Se a questi dati si aggiungono i decessi per altre patologie aggravate dalla presenza di sostanze nocive presenti nell’aria, i numeri diventano elevati. Così come si sta operando affinché la pandemia da coronavirus venga debellata il più presto possibile e con ogni mezzo disponibile, sarebbe altrettanto auspicabile che un’altra forma pandemica, l’inquinamento atmosferico, venisse combattuta con altrettanta decisione. Strategie, metodi e interventi di prevenzione esistono e sono a disposizione di tutte le nazioni, basta volerli mettere in atto.